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Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo.

    Indice:

La vicenda
Il motivo addotto nel ricorso per Cassazione
La pronuncia della Suprema Corte

1. La vicenda

I giudici d’Appello confermavano la sentenza di primo grado di rigetto della domanda di Tizia intesa alla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con la società Alfa (con inquadramento nel livello retributivo B2 del contratto collettivo applicabile) quale conseguenza della asserita non genuinità dell’appalto avente ad oggetto l’erogazione del servizio infermieristico e di assistenza ausiliaria stipulato fra la predetta società e la società Beta, formale datrice di lavoro della ricorrente. I giudici di secondo grado, in dichiarata condivisione della valutazione di prime cure delle risultanze processuali, ritenevano che le emergenze in atti avessero confermato in concreto l’organizzazione e gestione autonoma dei propri dipendenti da parte della società Beta il cui oggetto sociale consisteva nell’erogazione di servizi socio sanitari assistenziali; detta società disponeva di 433 dipendenti e la genuinità dell’appalto risultava confermata dal fatto che Tizia aveva lavorato anche presso altre strutture sia prima che dopo essere stata adibita ai reparti della società Alfa.

2. Il motivo addotto nel ricorso per Cassazione

Tizia si rivolgeva alla Corte di Cassazione, davanti alla quale, tra i vari motivi sollevati, lamentava la violazione e la falsa applicazione dell’art. 29 D. Lgs n. 276/2003. La lavoratrice censurava la sentenza impugnata per avere ritenuto la genuinità dell’appalto al quale era addetta l’originaria ricorrente, in considerazione del fatto che la società Beta formale datrice di lavoro aveva mantenuto la gestione amministrativa del rapporto, elemento quest’ultimo inadeguato alla luce della giurisprudenza di legittimità maturata in tema di appalto cd. endoaziendale a dare contezza dell’asserita genuinità dello stesso.

3. La pronuncia della Suprema Corte

La Corte di Cassazione dava torto a Tizia affermando che “Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo”.

Invero, tale ipotesi, nella vicenda in esame, era esclusa alla luce dell’accertamento operato dai giudici d’Appello.

In virtù del suddetto principio, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso e condannava parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

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